AnnibalCaro

 

Colorinversi


ll settimo volume della collana Sguardi di donne vede riunite le opere di due poetesse e di una pittrice, precedute da stralci di lettere di Annibal Caro, insigne scrittore civitanovese di cui sono prossime le celebrazioni per i cinquecento anni della nascita (1507 - 2007). Si parla spesso di intensi sodalizi o di alterità fra artisti della penna e del pennello. Scopriamo nelle pagine lasciate da Annibal Caro: Lettera a Messer Giorgio Vasari Dipintore a Firenze e Lettera a Messer Tadeo Zuccaro Pittore, lo stesso impegno ad intendersi ed ispirarsi reciprocamente. Nella prima lettera, facendo perno sulla pittura «similissima a la poesia» e sulla perizia del Vasari, poeta, scrittore e pittore, Annibal Caro commissiona a Giorgio Vasari un quadro avente per soggetto La morte di Adone nelle braccia di Venere. Teocrito è l'ispiratore, ma le figure sono descritte ed indicate nella loro camalità e consistenza realistica: bellezza, ma anche «fantasia» ed «invenzione» degne dei grandi artisti rinascimentali. Figure d'ambiente quali Ninfe, Parche, Grazie e Amori, eventi misteriosi e divini debbono vivificare il quadro: «rose», nate dal «sangue» di Adone e «papaveri» scaturiti da «lacrime». Realizzasi così non tanto il 'compianto' come nelle deposizioni medievali o religiose, bensì il languore e il godimento di forme, di atteggiamenti e di rituali pagani: il pianto delle Grazie, i lavacri degli Amori per Adone. Il culto del classico riaffiora nella perfetta nudità dei corpi più indovinati da panneggi che esposti alla vista con intento realistico, secondo i dettami controriformistici. Ancor più ciò risulta dalla lettera-commissione a Taddeo Zuccari per una immagine di Aurora da realizzarsi nell'ovato di una volta in una stanza del castello di Caprarola. Ancor qui l'immagine quasi palpabile di Aurora, avvenente giovinetta, viene esaltata dai colori delle vesti: Alba, Vermiglia, Rancia e dallo svolazzare delle sete. Altrettanto veridica e pagana la figura del carro che la ospita guidato dai mitici destrieri Lampo e Fetonte, Pegasi alati, uno bianco e l'altro rosso con Amori che sostengono «face» ardente alla testa e alla coda del carro dorato. Un carro che sorge «da una marina tranquilla che mostri d'essere crespa, luminosa e brillante». Le descrizioni sono avvincenti e legate all'immagine di un Annibal Caro maestro di linguaggio e d'arte, filologo, per il quale l'ispirazione poetica confluisce nella realtà pittorica. Entrambi i documenti sono un alto insegnamento di come la parola e l'immaginazione, con dovizia di elementi, possono pervenire ad una grande capacità interpretativa. Monito alle molte intemperanze e lassitudini dei nostri tempi.

(Dalla presentazione di Maria Elisa Radaelli)


Gli scritti di Annibale Caro presenti nel volume.

"A Messer Giorgio Vasari Dipintore a Firenze.

Il mio desiderio d'avere un'opera notabile di vostra mano, è così per vostra laude, come per mio contento, perché vorrei poterla mettere innanzi a certi che vi conoscono più per ispeditivo ne la pittura che per eccellente. Io ne parlai col Botto in questo proposito, con animo di non darvene fastidio, se non quando vi foste sbrigato da l'imprese grandi. Ma, poi che voi medesimo vi offerite di farla adesso, pensate, quanto mi sia più caro! Del presto, e de l'adagio, mi rimetto a voi, perché giudico che si possa anco presto, e bene, dove corre il furore, come ne la pittura, la quale in questa parte, come in tutte l'altre, è similissima a la poesia. [...] E da questa vostra prontezza d'operare ho già conceputa una gran perfezione de l'opera. Sicché fatela quando e come ben vi torna, che ancora de l'invenzione me ne rimetto a voi. Ricordandomi d'un'altra somiglianza che la poesia ha con la pittura, e di più, che voi siete così poeta, come pittore, e che ne l'una, e ne l'altra con più affezione e con più studio s'esprimono i concetti e le idee sue proprie che d'altrui. Purché siano due figure ignude, uomo, e donna, che sono i maggiori soggetti de l'arte vostra, fate quella storia, e con quell'attitudine che vi pare. Da questi due principali in fuori, non mi curo che vi sieno molte altre figure, se già non fossero piccole, e lontane, perché mi pare che l'assai campo dia più grazia, e faccia più rilievo. Quando voleste sapere l'inclinazion mia, l'Adone, e la Venere, mi pare un componimento di due più bei corpi che possiate fare, ancora che sia cosa fatta. E, risolvendovi a questo, arebbe del buono che imitaste più che fosse possibile la descrizione di Teocrito. Ma, perché tutt'insieme farebbe il gruppo troppo intricato, (il che dicevo dianzi che non mi piaceva) farei solamente l'Adone abbracciato e mirato da Venere con quello affetto che si veggono morire le cose più care, posto sopra una veste di porpora, con una ferita ne la coscia, con certe righe di sangue per la persona, con gli arnesi di cacciatori per terra, e (se non pigliasse troppo loco) con qualche bel cane. E lascierei le Ninfe, le Parche, e le Grazie che egli fa che lo piangano, e quegli Amori che li ministrano intorno, lavandolo e facendogli ombra con l'ali. [...] Ed accennerei, se si potesse, che del sangue nascono le rose e de le lagrime i papaveri. Questa, o simile invenzione, mi va per la fantasia, perché oltre a la vaghezza ci vorrei de l'affetto, senza il quale le figure non hanno spirito. [...] "

Di Roma, a li 10 di Maggio MDXLVIII.

"A Messer Tadeo Zuccaro Pittore.

I soggetti, che 'l Cardinale m'ha commandato ch'io vi dia per le dipinture del Palazzo di Caprarola, non basta che vi si dicano a parole, perché, oltre l'invenzione, ci si ricerca la disposizione, l'attitudini, i colori, e altre avvertenze assai, secondo le descrizioni ch'io trovo delle cose che mi ci paiono a proposito. Però vi stenderò in carta tutto che sopra ciò m'occorre, più brevemente, e più distintamente ch'io potrò. [...j Ne l'ovato che è ne la volta si faccia a capo d'essa (come avemo detto) l'AURORA. Questa truovo che si può fare in più modi, ma io scerrò di tutti quello che a me pare che si possa far più graziosamente in pittura. Facciasi dunque una fanciulla di quella bellezza che i poeti s'ingegnano d'esprimer con le parole, componendola di rose, d'oro, di porpora, di rugiada e di simili vaghezze, e questo quanto ai colori e a la carnagione. Quanto a l'abito, componendole pur di molti uno che paia più appropriato, s'ha da considerare che ella, come ha tre stati e tre colori distinti, così ha tre nomi: Alba, Vermiglia, e Rancia. Per questo le farei una vesta fino a la cintura, candida, sottile e come trasparente. Da la cintura fino a le ginocchia una sopravesta di scarlatto con certi trinci e greppi che imitassero quei suoi riverberi ne le nugole, quando è vermiglia. Da le ginocchia in giù fino a' piedi di color d'oro, per rappresentarla quando èrancia. Avvertendo che questa veste deve esser fessa, cominciando da le cosce, per farle mostrare le gambe ignude. E così la veste come la sopraveste siano scosse dal vento, e faccino pieghe e svolazzi. Le braccia vogliono essere ignude ancor esse e di incarnagione pur di rose, ne gli omeri le si faccino l'ali de' vari colori, in testa una corona di rose, ne le mani le si ponga una lampada, o una facella accesa, ovvero le si mandi avanti un Amore, che porti una face, e un altro dopo che con un'altra svegli Titone. Sia posta a sedere in una sedia indorata sopra un carro simile, tirato o da un Pegaso alato, o da due cavalli, che ne l'un modo, e ne l'altro si dipigne. I colori de' cavalli sieno, de l'uno splendente in bianco, de l'altro, splendente in rosso, per dinotarli secondo i nomi che Omero dà loro di Lampo e di Faetonte. Facciasi sorgere da una marina tranquilla che mostri d'essere crespa, luminosa e brillante. [...]. "

Di Roma, a li 2 di Novembre MDLXII.

"A GIULIA MORA.

Moglie mia salata impepata, io mi sento un gran sollucheramento al core, poiché ho saputo che mi vieni a trovare. E mi vo mettendo a ordine con le mie cose per farti un bello scontro. Poiché tu vieni per mare, abbi cura a la bossola, che i marinari non te la stazzonino. E guarda che Vittorio non ti stivi per una de le sue botte, perché non voglio che tu passi a la doana se non per caratello. Quando sarai qui, faremo de' piccirielli come tu vorrai; in tanto fatti insegnare a la Maria come si fanno, e non ti impacciar con quel brigante di Scipione, perché ti so dire che ti farà piangere. Ti ricordo che quei tuoi labrotti così grossi di qua non s'usano; quando ne scemasti due o tre gheroni staresti meglio, e credo che la scimia ti servirà. Del resto, riformati e raffazzonati secondo che messer Francesco dirà, e voglimi bene, mogliozza mia, tarchiotta, fardellotto mio bello, morozza mia saporita, che, a le sante de' guagnele, io voglio meglio a te, che non voleva Gucciombratta a la Nuta. Vien presto che sono in succhio; e santo Anton miti guardi. "

Roma, 23 marzo MDXXXIX.

 

 

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