AnnibalCaro

 

OMAGGIO A SERGIO CARTECHINI


Amante della cultura e dell'arte mediante le quali cerca di «sopravvivere e essere se stesso», Sergio Cartechini dedica opere ad Annibal Caro di cui vengono qui pubblicati, come nei precedenti volumi della collana Sguardi di donne alcuni scritti. Una splendida incisione che rappresenta il letterato nella sua città accompagna l'epistola da lui inviata A la Communità di Civitanova al fine di giustificare il proprio operato di fronte all'accusa di frode ai danni dei concittadini. Segue una superba immagine paesaggistica accanto alla lettera composta dal Caro a Serra San Quirico, indirizzata Al Sodo (Marc'Antonio Piccolomini scrittore) e Diserto (Antonio Barozzi) Intronati (dell'Accademia Intronati), a Macerata dove viene tracciato il quadro alpestre e selvatico di Serra San Quirico, quadro notevole sciolto da ogni reminiscenza e aderente alla realtà per effetto di un discorso pittorico nascente proprio dalle cose. L'epistola è un esempio della prosa del Caro, fresca e lontanissima dall'affettazione, considerata da Giacomo Leopardi «il vero apice della prosa italiana», paragonabile ad un bel giardino all'italiana, con le aiuole disegnate amorosamente. Un' altra lettera divertente scritta ugualmente a Serra San Quirico e indirizzata Al Signor Marc 'Antonio Piccolomini, a Macerata, in sintonia con il simpatico dipinto Antica scolaresca, narra «de la miseria de lo scrivere» che porta a «rompersi la schiena», a «disgregarsi la vista», a «logorarsi le polpastrelle de le dita» e ad un'infinità di altre disgrazie., tanto che l'autore consiglia di tenersi lontano da questa micidiale invenzione. Ma il Caro, nonostante le lamentele, anche alla fine della vita continua imperterrito a «schiccherar fogli» traducendo l'Eneide di Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) da lui trasformata in un perfetto «volgarizzamento» definito da Ugo Foscolo «poema» in cui si sente «la traccia di una mano immortale» grazie all'uso di un endecasillabo snello, incisivo, vario e drammatico. Nel volume viene proposto un brano della famosa traduzione; accanto un'illustrazione di Sergio Cartechini, parimenti ricca di pathos e di umanità, nell'evidenziare l'amore filiale di Enea per il padre Anchise, rivela l'anima di un artista che nei colori e nelle sapienti linee depone dolcemente i propri affetti.

(Dall'introduzione di Carla Mascaretti)

 


Gli scritti di Annibale Caro presenti nel volume.

"A la Communità di Civitanova.

Non posso negare d'aver sentito grandissimo dispiacere de la calunnia che nuovamente m'è stata data appresso a le Signorie Vostre, vedendo da un canto, ch'io son perseguitato, e ripreso di quello che debbo esser lodato, e riconosciuto, da l'altro, che la passione di quelli che mi perseguitano, benché senza mia colpa, vi voglia contaminare quella buona opinione ch'avete avuta fino a ora di me, o veramente condurvi a far qualche risoluzione indegna di voi. Ma poi, confidando nel buon giudizio vostro, e ne la sincerità de l'animo, e de l'opere mie, me ne do pace. Ed in ogni caso mi risolvo che a me basti d'essere quel ch'io sono, e d'aver sempre cerco di fare, e fatto con effetto tutto quello che ho potuto a beneficio de la mia patria, cosa notissima ad ognuno. E, se pochi 1'interpretano in mala parte, essi sanno da che spirito son mossi, e voi sapete gli umori che corrono, e le qualità de tutti i vostri cittadini. Onde che, per giustificar l'azioni mie appresso di voi, non entrando altramente a dir mal d'altri, per questa volta mi contenterò d'una semplice difensione. Sono imputato che, per avervi fatto sgravare in Camera Apostolica di 200 scudi l'anno, io abbia frodata la Communità di due annate. La prima cosa, voi vi dovete ricordare che più volte m'avete scritto ch'io dovessi entrare in questa impresa, e che io da prima ve lo disdissi, e vi feci intendere la difficoltà, e quasi l'impossibilità di condurla. Mi replicaste, mi pregaste più volte, mandaste a Roma prima ser Maro, di poi ser Cenzio, a l'ultimo Masseo con imbasciata, e con ordine risoluto che io non guardassi di spendere tre o quattro annate, se bisognava, perché vi si togliesse a qualche tempo da dosso quel peso insopportabile. E, che sia vero, faceste quattro deputati, ch'avessero tutta l'autorità che bisognava sopra di ciò, per obbligare la Communità, perché la cosa si negoziasse discretamente, e con intervenimento di pochi. E, con queste risoluzioni fatte da voi medesimi, mi stringeste contra mia voglia a tentare anco per questa via, a superare le difficoltà che ci avea, ancora che la domanda fosse giusta, e che ci avessi il favore del Reverendissimo Camerlingo. L'ho fatto a vostra preghiera, ed a la fine dopo due anni mi è riuscito, Dio sa con quante pratiche, con quante fatiche, e con quanto obbligo co' padroni, e con quanto disturbo degli amici, che per servirvi ci ho speso tutto quel favore, e tutto quel credito che ho potuto mai acquistare in xv anni in quella Corte."

Di Piacenza, a li ... di Maggio MDXLVI.

"Al Sodo e Diserto Intronati, a Macerata.

Come le SS. VV. hanno inteso, dopo molte ed agiatissime giornate, ci siamo a la fine condotti a la prefata Serra, sani ed interi, che non ci manca membro niuno. Così gli potessimo noi metter tutti in opera, perché da le gambe in fuora, gli altri ci si cominciano a rugginir per modo, che abbiamo quasi più invidia che compassione al signor Diserto de la sua sciaura. A voi, signor Sodo, quanto a la caccia diciamo che v'avemo in questo mestiero per molto intendente; e di questo eravamo risoluti per insino da l'ora che essendo ricerco d'andare a quella de' cignali, rispondeste, che volevate prima imparare a rampicarvi. Per informazione de la vita nostra, vi doveria bastar quasi a dirvi quel che v'avemo detto, cioè, che siamo a la Serra, che vuol significar serrati e sepolti in un paese fuor del mondo, come si dice in grammatica Extra anni solisque viam. Or pensate come possiamo strologare, poiché strologhi ci chiamate. Primamente ci avemo un cielo senza orizonte, senza longitudine e con poco men d'una quarta di latitudine. Imaginatevi che siamo dentro una botte sfondata di sopra, e sdogata da un canto, dal cocchiume in su, e che quindi veggiamo il cielo come sarebbe per una gattaiuola. Ci parrebbe luoco ben determinato per cattare auguri, se ci fossero d'ogni sorte ucegli, come ci sono solamente gufi e barbaianni. Quando è nugolo, o nebbia (idest la maggior parte del tempo) c'è notte perpetua. Quando è sereno (che è per disgrazia) se è di notte, non si veggono altre stelle che quelle che sono, o vengono nel nostro Zenit; s'è di giorno, il sole v'è di passaggio al più lungo per quattro ore, tutto '1 restante è buio, o barlume. Vi farebbono ridere le stravaganze che vi sono. È si può dire, nel mezzo di Italia, ed ha il giorno de l'ultima Scozia. E tanto di qua de l'equinoziale, e non vede né 'l Carro, né '1 Corno, che ne l'emispero nostro si veggono sempre. È posta ne l'arido, non che ne l'asciutto, ed ha forma proprio d'una galera. E in un rilievo d'un monte, e sta fitta in una valle. E chiusa da tutti i venti, e solamente aperta da Corina; e tutti nondimeno, e di tutti i tempi vi passono, o vi nascono, o poiché v'entrano, non ne sanno uscire. A pena (come abbiamo detto) è veduta dal sole, e la state vi si spasima di caldo, e l'invernata la prima ed ultima neve è la sua. Ora se gli siti fanno le complessioni, e le complessioni i costumi, pensate, che uomini sono questi che vi stanno, e quali diventeremmo noi, se ci stessimo."

Da la Serra San Quirico, a li XIII di dicembre MDXL.

"Al signor Marc'Antonio Piccolomini, a Macerata.

Voi m'avete tocco a punto dove mi duole, a ricordarmi la miseria de lo scrivere. Oimè, ch'io ho tirata questa carretta, si può dire, da che cominciai a praticar con quel traditore de l'a.b.c. E dove voi siete ora in questa disgrazia di passaggio, e per accidente, io ci sono stato e sarovvi (mi dubbito) condennato in perpetuo. Voi, de lo strazio che vi fa, vi potete vendicare con quei cancheri che ne mandate al Diserto, e sperare di liberarvene col suo ritorno. Ma io (poiché non si può fare che questa peste non sia) non ci ho rimedio alcuno, né posso sfogare la colera ch'io n'ho con altro che maledir Cadmo e chiunque si fusse altri di quelle teste matte, che ritrovarono questa maledizione. Che a punto non mancava altro a madonna Pandora per colmare a fatto il suo bussoletto. Ma poiché mi trovo scioperato, e dove voi mi sapete, per fuggir la mattana; e perché veggo che voi volete il giambo, non posso far meglio che dirvi male di questa tristizia. Costoro che vogliono che sia una bella invenzione debbono scrivere molto di rado; che se provassero il giorno e la notte di rompersi la schiena, di stemperarsi lo stomaco, di consumarsi gli spiriti, di disgregarsi la vista, di logorarsi le polpastrelle de le dita, e (come voi dite) di cader di sonno, d'assiderarsi di freddo, di morirsi di fame, di privarsi de lor consolazioni, e di star tuttavia accigliati per non far altro che schiccherar fogli, e versarsi a l'ultimo il cervello per le mani, parlerebbono forse d'un altro suono. A quelli altri che dicono che non si potria far senz'esso, bisogneria domandare come si faceva avanti che si fosse trovato, e come fanno ora quelle rozze persone, e quei popoli de l'Indie nove, che non ne hanno notizia. Se credono che sia necessario per dare avviso di lontano, e per far ricordo de le cose che occorrono, io dico, quanto al ricordo, che non sanno che cosa sia la providenza e l'ordine de la natura, la quale dove manca una cosa sopplisce con un'altra; e dove supplisce l'una, fa che l'altra non ha luogo. Così medesimamente l'arte, la quale in ogni cosa è scimia de la natura. Donde si dice che Domenedio manda il freddo secondo i panni, ed i panni si fanno ancora secondo il freddo. Voglio dir per questo che se non fusse lo scrivere sarebbe un modo di vivere che non ne aremmo bisogno. Ed in sua vece servirebbe il tenere a mente. Conciosia cosa che per questo la più parte ora non ci rammentiamo perché scrivemo. "

Da la Serra San Quirico, a li ...

 

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